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prefazioni

  Prefazione "L'Aquila e la Spada" di Raffaella Bettiol
Tra Storia e Leggenda…
Il viaggio di Alvaro Gradella


La Leggenda, sia che riguardi avvenimenti o personaggi, non nasce mai da fatti del tutto immaginari, ma ha in sé sempre una parte di verità storica, che viene trasformata grazie alla fantasia di un popolo che la ritiene fondamentale per il proprio patrimonio culturale. Ed è questo che la distingue dal Mito, il quale non ha bisogno di fondare su dati reali, perché pone le sue radici su verità religiose e di pensiero, che rivelano l’anima d’una comunità.
Il sottotitolo de L’Aquila e la Spada, il primo romanzo di Alvaro Gradella, cita: “La Storia è scritta dai Vincitori, la Leggenda… dagli Sconfitti”; l’autore, infatti, nel suo avvincente racconto, riprendendo la leggendaria figura di Macsen Wledig, mitico eroe dei bardi, ci chiarisce, con ricchezza di dettagli storici, come questa, in realtà, rispondesse a quella di Magno Clemente Massimo, ultimo Governatore romano delle Britannie.

Da sempre appassionato di storia romana, Gradella ci offre un affresco vivido ed intenso dell’Impero Romano del IV secolo dopo Cristo: un periodo storico drammatico, caratterizzato da cruente lacerazioni interne e continui spostamenti d’intere popolazioni barbariche all’interno dei confini romani. Di frequente, l’autore ci conduce su campi di battaglia, dove le manovre e le tecniche belliche sono ricostruite con grande precisione, studiate nei minimi particolari tattici. Il romanzo inizia, tra l’altro, con la descrizione della tragica sconfitta dei Romani ad Adrianopoli, in Tracia, nel 378, dove trovò la morte lo stesso imperatore d’Oriente Valente. Magno Massimo, uno dei pochi sopravvissuti alla battaglia, secondo il racconto di Gradella, dopo aver riportato all’Imperatore d’Occidente, Graziano, l’anello d’oro di Valente, verrà nominato Comes Britanniarum.
Ed è da questo momento che avrà inizio la sua grande avventura: in questa terra, pervasa d’un magismo mistico, le sue gesta, volte a riportare la pax romana, rimarranno incancellabili nella memoria dei Celti della Britannia. Magno Massimo, unico tra i non nativi, diverrà uno dei protagonisti del Mabinogion (libro costituito da un gruppo di testi in prosa, provenienti da antichi manoscritti gallesi, contenenti storie dell’Alto medioevo e miti remoti) nel racconto Breuddwyd Macsen Wleding.
Per la storiografia ufficiale, tuttavia, la sua figura è rimasta condannata alla
damnatio memoriae, come quella d’un usurpatore. Ma si sa che la storia spesso è un insieme di menzogne, di imbrogli: un insieme di vittorie risibili e sconfitte immeritate.
Le pagine del libro si susseguono vivide ed incisive, lo sguardo dell’autore si posa con l’attenzione, propria di un consumato regista, su ogni più piccolo dettaglio ed ogni ambientazione è studiata nei minimi particolari. Lo stile chiaro e limpido segue il ritmo della narrazione, rendendola estremamente efficace. Alvaro Gradella s’immerge in un mondo storico-leggendario con la consapevolezza di chi conosce a fondo non solo le vicende storiche, ma l’animo e la spiritualità stesse di due popoli così diversi: quello romano e quello dei britanni, destinati a fondersi. Alla concretezza, infatti, dello spirito romano, si contrappone la cultura dei celti, popolata di riti magici, di druidi e di fate, dove ha un’anima anche il più piccolo fiore. Elain, la principessa che nel romanzo sposerà il nostro eroe, afferma in uno dei momenti più delicati e lirici del racconto: “Sai, noi Celti crediamo che ogni creatura vivente abbia dentro di sé una scintilla di forza in grado di influire su chi sa riconoscerla e avvertirla. Gli esseri umani hanno l’anima, splendente e sonora. I vegetali hanno una propria essenza, trasparente e vibratile.” La vicenda d’amore, che legherà per sempre Magno Massimo alla terra dei Celti, si può dire rappresenti la conciliazione tra Apollo e Dionisio: la bellezza di un nuovo sentire.
Con grande perizia l’autore si sofferma a descrivere luoghi, costumi, paesaggi, dettagli d’ambientazione geografica e scenari fantastici. La natura ha un ruolo importante in questo scenaroi; molto suggestive sono le immagini che Gradella ci regala della fatata Britannia: “Le api s’affannavano nuovamente fra corolle dai tanti colori; il caprifoglio e il biancospino, dai piccoli fiori, spuntavano fra le macchie, e il profumo dell’erica e della ginestra sembrava permeare ogni cosa, mentre le grandi foreste di querce e di faggi, di aceri e di frassini - di nuovo percorse senza tregua da scoiattoli , donnole e martore - s’ammantavano rigogliose di verde brillante, e dal mare la brezza spirava fertile”.
L’Aquila e la Spada è un romanzo, che a buon diritto si può definire storico, perché molti dei personaggi, che si muovono attorno al protagonista, sono realmente esistiti e con grande esattezza geografica e cronologica l’autore ci descrive gli avvenimenti, che caratterizzarono l’Impero romano del IV secolo, destinato ormai ad un inevitabile declino. Un aspetto di grande importanza, che viene puntualmente ricordato da Alvaro Gradella, è inoltre quello relativo alla questione religiosa. Prima Graziano, infatti, e successivamente, in modo ancora più deciso, Teodosio avevano imposto il Cristianesimo come unica religione, bandendo dai confini dell’Impero ogni altro culto. Questa svolta, nella politica religiosa, costituì uno dei motivi di forte tensione tra i legionari di Magno Massimo, perlopiù ancora legati al culto di Mitra, e li spinse a proclamarlo Imperatore. Il libro, inoltre, come già precisato, è ricco di suggestioni e di fantasia: dall’invincibile Spada di Macsen - forgiata da un misterioso fabbro (lo stesso che aveva realizzato le saette di Giove, la corazza d’Ercole, l’armatura e lo scudo di Marte) - nascerà la leggenda di Re Artù.
Realtà e finzione, dunque, in un abile gioco, s’intersecano e s’alternano lungo le pagine di questo romanzo, che ci restituisce la grandezza di due straordinarie culture, all’apparenza inconciliabili, e recupera, come scrive Biagio Cacciola, un periodo storico decisivo per la Civiltà Europea.


Raffaella Bettiol

Poetessa e scrittrice, ha pubblicato: “L'anima segreta” (1997), “Ipotesi d'amore” (2006) e “Notturno” (2007, cd, a cura e voce di Valter Zanardi); ha steso la postfazione alla raccolta poetica "Camminando in versi" (1996) e ha curato l'antologia “Il mio bicchiere da viaggio - Otto poeti italiani d'oggi” (2001). Una sua lirica è inserita nella raccolta “Gelato in versi” (1997). Ha partecipato a numerosi concorsi letterari ottenendo i seguenti Primi Premi: 1995, "Calabria-Riviera dei Cedri", Taranto "Santa Croce", "Val di Vara", quest'ultimo anche nel 1996; 1998, "San Marco-Città di Venezia" Terzo Premio (per la raccolta “L'anima segreta”); "Primavera Strianese" Primo Premio (per la raccolta “L'anima segreta”); oltre a numerosi altri Premi nazionali ed internazionali. Nell'assegnarle il Premio "Calabria '79", la Giuria ha steso la seguente motivazione: «Classica nei toni armoniosi e dimessi, moderna negli accostamenti di stile e d'immediatezza espressiva, la poesia della Bettiol si distingue per il senso delicato di intuizioni felici, di genuina e spontanea freschezza d'immagini e per la sintetica definizione delle più segrete pieghe dell'animo umano. Un'esperienza poetica ravvivata da interiori consolazioni; una voce ben modulata, aperta e nuove quasi discorsive cadenze.». E' stata anche Presidente della prestigiosa associazione culturale “Società Dante Alighieri” di Padova.

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  Prefazione "L'Aquila e la Spada" di Adolfo Morganti
Il crogiolo

L’Aquila e la Spada di Alvaro Gradella è un grande romanzo storico. Lo è per la sua storia, per l’afflato che lo pervade, e in apice per la lezione che comunica garbatamente ma con energia.

L’Autore, cosa rara in un clima di consumismo culturale in cui chi scrive romanzi storici – un genere di sempre fecondo successo, fatto che suggerisce molte valutazioni attorno al bisogno di identità storica che contraddistingue il mondo in cui viviamo – lo fa leggendo al massimo altri romanzi storici e compulsando la più vasta miniera a cielo aperto di errori e superficialità della modernità, Wikipedia, da anni studia con attenzione quel lungo e cruciale periodo di passaggio fra Romanità e alto Medioevo che darà poi vita ad un cuore pulsante della letteratura e dell’identità europea, la “Materia di Bretagna”, la storia di Re Artù e della Tavola Rotonda.
Da anni, si diceva: la mia conoscenza con Alvaro Gradella risale al 1997, quando con “
La terza Aquila”, un racconto veramente bellissimo, vinse il 2° Premio al Concorso internazionale promosso da Fantàsia in occasione dell’annuale Convention nazionale di Letteratura Fantastica e dell’Immaginario (ItalCon). Il suo racconto venne quindi pubblicato in una bella antologia dal nome antibrechtiano, È sempre tempo di eroi (Il Cerchio, 1998).
Già in quell’occasione egli si misurava con una profondità di conoscenza che lasciò stupita la Giuria del Premio attorno alla dialettica storica e spirituale fra romanità e germanesimo; anche allora perno del racconto era una spada; anche in quel racconto la figura dell’eroe era resa asciuttamente, senza retorica né antiretorica: Una scrittura efficace e stringata, una trama avvincente: un notevole autore scoperto, che solo la devastante esterofilìa del mondo letterario italiano – esasperata nell’ambito della letteratura di fantascienza e
fantasy, in cui si è dovuto spesso assistere al penoso spettacolo di autori di Bari o Rho che per pubblicare racconti e romanzi in Italia dovevano inventarsi pseudonimi anglosassoni e far finta di essere americani – ha tenuto ai margini della meritata notorietà artistica in ambito letterario, ché in altri ambiti gli ha viceversa assai più abbondantemente arriso.
Il lettore de
L’Aquila e la Spada può quindi misurare da solo lo spessore di questo amore di Alvaro per quella stagione corrusca e cruciale della nostra storia, crogiolo in cui ha preso forma l’Europa di oggi, e considerare come dietro alla bella lettura di questo romanzo riposino molte belle letture, altrettante meditazioni, uno studio assiduo del contesto storico ed antropologico di cui esso si nutre generosamente.
L’afflato… per un romanzo storico è tutto. In realtà Alvaro Gradella ci narra costantemente le metamorfosi dell’archetipo dell’Eroe, che a differenza della nota ed infelicissima battuta di Bertold Brecht non ci abbandona mai; così come ci è noto quanto il drammaturgo tedesco adorasse gli Eroi del Lavoro dell’Unione Sovietica, non esiste semplicemente società umana che non distilli i propri
esempi e non li additi all’onore sociale, all’imitazione dei propri membri. Se gli storici delle religioni, a partire dallo statunitense Joseph Campbell, hanno da decenni illuminato l’esemplarità, quindi la natura sociale e pedagogica della figura dell’Eroe nelle società tradizionali, chiunque analizzi la società contemporanea si trova a dover affrontare il medesimo tema, che per pudore potrà essere travestito con termini più politically correct (come moda, od icona…) ma che resta vivo della medesima funzione; di fronte alle miriadi di magliette col volto trasfigurato di Che Guevara ed alla macchina massmediale che divinizza Lady Gaga ad uso delle adolescenti in cerca di identificazioni di successo, lo spessore del Magno Massimo di Alvaro Gradella risalta scolpito nel marmo.
La Storia è scritta dai Vincitori, la Leggenda… dagli Sconfitti”. La lezione de L’Aquila e la Spada potrebbe veramente essere compendiata nella frase di copertina. Ma così come i Vincitori non sono sempre né belli né buoni, così gli Sconfitti continuano a richiamare non solo la pietas che si deve (si dovrebbe) riconoscere al valore sconfitto sul campo, ma qualcosa di più: la bellezza dell’azione, la profondità dell’amicizia, il coraggio di fronte ad un destino che come quello di tutti noi è intessuto di speranze e timori, di amore e delusione, di vita e di morte. Le vicende lontane di Macsen Wledig tornano così a parlare ad ognuno di noi della battaglia quotidiana, che ogni uomo combatterà su questa terra finché non avremo nuovi cieli e nuove terre. Ed in questa narrazione la Spada rimane il simbolo assiale, nella sua continuità e nelle sue trasformazioni, di una sacralità che non si estingue. Mai.

Adolfo Morganti
Psicologo e psicoterapeuta, svolge funzioni peritali presso i Tribunali Civili e Penali di Rimini e San Marino e il Tribunale Ecclesiastico Flaminio di Bologna. Presidente dell’Associazione Culturale Internazionale Identità Europea e già dell’Unione Paneuropea della Repubblica di San Marino, promotore e coordinatore l’Università d’Estate della Repubblica di San Marino. Tra gli Istituti da lui fondati si ricordano l’Osservatorio Stabile sull’Integrazione Europea e la Sussidiarietà, il Centro Studi Nuovo Medioevo della Repubblica di San Marino, presieduto dal prof. Franco Cardini, l’Istituto di Studi Storico-Politici Sammarinese (ISSPOS). Ha diretto la Collana di Saggistica “L’uomo e il Sacro” presso le Edizioni Rusconi di Milano, il quadrimestrale di Studi di Antropologia Religiosa I Quaderni di Avalon  e il mensile EuropaItalia.  Collabora a numerosi periodici italiani ed europei. Tra i suoi numerosi saggi, oltre alle traduzioni e alla curatela di opere di L. Charbonneau-Lassay, S.E. Mons. Paul Poupard, Takuan Sōhō,  si ricordano “Il Mago Merlino. Metacritica di un mito letterario” (Solfanelli editore, 1986), “Il Mistero del Mago Merlino” (Il Cerchio, 2008), “La costruzione dell’Europa unita. Storia, radici, prospettive” (Il Cerchio, 2006). Tra le mostre da lui curate: “Un tempo da riscrivere: il Risorgimento italiano” (con F.M. Agnoli), “San Colombano, Abate d’Europa” (con Paolo Gulisano e Mauro Steffenini); “Roma, Santiago, Gerusalemme. Vie e luoghi dell’incontro con Dio” (con Franco Cardini).


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  Prefazione "L'Aquila e la Spada" di Elvio Guagnini

Perché si scrive un romanzo “storico”? Perché si scrive un romanzo “storico”, oggi? Che cos’è un romanzo “storico”? In tempi di ripresa di interesse, da parte degli scrittori e del pubblico, per il genere, e di problematiche discussioni sulla sua natura e sulle possibili definizioni delle sue diverse declinazioni, qualche risposta può venire dall’osservazione di modelli e di libri che, per certi aspetti, devono essere registrati sotto questa definizione.
Libri che presentano figure e fatti, contesti e problematiche di un passato più lontano o anche vicino (la storia di un passato prossimo che già non è più presente): non semplicemente pretesti e sfondi, scenari generici o meri spunti marginali ma fili, materiali, figure di qualche consistenza sul piano di una documentazione storica che si intrecciano con ipotesi, congetture, supposizioni immaginarie (in misura maggiore o minore), elementi di un’invenzione non gratuita o slegata da ciò che si conosce di quell’epoca o di quella società. Così ha fatto Gradella, riprendendo elementi di documentazione e suggerimenti di vario genere (da Robert Graves a Gore Vidal, da Paolo Monelli a Mary Stewart, da Stephen Lawhead a Charlotte Guest, tra gli altri); e coniugando personaggi realmente esistiti, figure leggendarie e altre di fantasia, Romani e Celti della Britannia, antichi culti pagani, il Cristianesimo che si conquista nuovi spazi ufficiali contro gli antichi dèi, rituali druidici. Elementi che si intrecciano nel racconto serrato delle gesta di un generale romano che, in qualità di Governatore della Britannia, tende alla conciliazione dello spirito di Roma con le tradizioni celtiche, del governo militare con la difesa del territorio e con la comprensione della dignità, della cultura, delle aspirazioni dei suoi abitanti. Magno Clemente Massimo,
Comes Britanniarum, viene promosso – così – a cardine tra una storia di Roma e dell’Impero in epoca (fine del IV secolo d.C.) di conflitti, lacerazioni, divisioni, declino, e leggendaria fondazione di miti britanno-celtici che troveranno poi sviluppo nei cicli arturiani
Gradella si immerge in questi nodi storico-leggendari con il gusto e il piacere della ricostruzione di figure, situazioni, costumi, paesaggi, dettagli d’ambiente, geografia, abiti. Lo fa per dare vita a un racconto, efficace nel ritmo e nel montaggio, di viaggi, battaglie, vittorie, sconfitte, orrori, violenze, amicizie, sentimenti che si intrecciano in una narrazione alla quale non rimangono estranee suggestioni di un racconto cinematografico. Dove si scontrano pure la resistenza di quei Britanni che si sentono avversari dei Romani, timorosi di subire la loro supremazia e dominazione, e l’utopia di altri Britanni che dai Romani ritengono di poter apprendere il senso di una dignità nazionale da difendere contro altri popoli, quando i Romani se ne sarebbero andati: «La nostra nobile storia di Britanni può ispirarci, può confortarci. - afferma Elain, principessa britanna, divenuta sposa di Magno Clemente Massimo - ma non può essere un giogo sotto il cui peso, a testa china, scaviamo con gli occhi nella polvere del passato invece che proiettare lo sguardo verso l’orizzonte del futuro. Un giorno i Romani se ne andranno, e noi dobbiamo essere pronti a difendere da soli la nostra patria dall’urto dei barbari!».
Magno Clemente Massimo, il protagonista del romanzo, è un generale romano divenuto popolare tra i Celti britanni come
Macsen, con l’appellativo Wledig (la Guida), difensore della sicurezza del territorio, che si troverà dotato di un’arma invincibile. Magno Massimo - figura poi scomparsa nella memoria storica dopo la sua sconfitta da parte di Teodosio Imperatore e rimasto, invece, nelle leggende britanno-celte - è al centro di un romanzo che assume e mescola tratti mitici, magici, horror, con altri riferiti a congiure politiche, scontri brutali, disfide letali, metamorfosi mostruose. E con venature sentimentali, descrizioni di parate e rituali grandiosi. Un dispiegamento di seduzioni spettacolari (con qualche inflessione ironica presente nell’enfasi della narrazione di macchine di guerra, di atti violenti e orrifici, di scontri giganteschi da cartoon giapponese). Ma anche con, al fondo, una problematica - degna di attenzione - relativa ai vincitori, ai vinti, a coloro che sono destinati a entrare nella Storia e a quelli ai quali - invece - è riservato uno spazio nella leggenda.
Elvio Guagnini


Professore Ordinario di Letteratura italiana nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Trieste. Ha insegnato come visiting professor presso le Università di Amsterdam e di Klagenfurt. È Condirettore di “Problemi” e di “Aghios. Quaderni di Studi Sveviani” e anche Redattore di “Metodi e Ricerche” e di “Italienische Studien”. Oltre a studi sulla letteratura di viaggio e di frontiera, si è occupato della questione del ‘giallo’ italiano, dei legami fra scienza e letteratura nel Settecento, di problemi di storiografia letteraria e culturale, con particolare attenzione a temi e autori della ‘cultura giuliana’ fra Sette e Novecento. Tra gli innumerevoli scritti pubblicati in volumi, riviste, cataloghi e bollettini si ricordano: L'età dell'Illuminismo e l'età napoleonica (Palermo, Palumbo, 1979); Note novecentesche (Pordenone, Studio Tesi, 1979); Viaggi e romanzi. Note settecentesche (Modena, Mucchi, 1994); Viaggi d'inchiostro. Note su viaggi e letteratura italiana di viaggio (Udine, Campanotto, 2000); Minerva nel regno di Mercurio. Contributi a una storia della cultura giuliana, (Trieste, Istituto Giuliano di Storia, Cultura e Documentazione, 2001).


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  Prefazione "L'Aquila e la Spada" di Biagio Cacciola
“L'Aquila e la Spada” recupera un periodo storico decisivo per la Civiltà Europea. Lo fa in modo romanzato, quasi canovaccio per una produzione cinematografica. E, infatti, forse “L'Aquila e la Spada”, come dimostra la sceneggiatura premiata dal Ministero dei Beni Culturali, non sfigurerebbe di fronte a film come “Centurion”.
Scritto con perizia divertita, secondo lo stile dei nuovi narratori alla White o alla Manfredi, Alvaro Gradella si caratterizza per il realismo descrittivo della vita di un generale realmente esistito: Magno Clemente Massimo.
Il romanzo unifica il clima di misticismo legato alle atmosfere celtiche con i riti e credenze che affondano le radici in un humus culturale tipico della dominazione romana di quel periodo. Gradella recupera, in modo paradossale, il vero significato della parola ‘traditore’ affibbiato all'ultimo Governatore della Britannia Magno Clemente Massimo: quello di tradere, trasmettere. Fu grazie infatti all'’usurpatore’ Magno Massimo che Roma lasciò alla Britannia il germe della nascita, dopo un secolo, della leggenda costitutiva del medioevo nordico: Re Artù.

Biagio Cacciola


Docente di Filosofia nei Licei Statali, abilitato in Storia, Scienze dell’Educazione, Psicologia Sociale, collabora con la Cattedra di Pedagogia Speciale dell’Università di Cassino, Facoltà di Lettere e Filosofia. Vive a Frosinone, dove svolge il suo impegno civile e culturale. Tra le iniziative cui ha dato vita nel capoluogo ciociaro, vi è la fondazione della Rassegna Internazionale di Cinema Comico “Comicittà”. Consulente nel 1999  presso la Commissione Vigilanza RAI nell’ambito dell’Informazione all’Utenza; negli anni 2003-2005 presso la Presidenza della Regione Lazio nell’Area Comunicazione, Linguaggi, Pubbliche Relazioni; presso il Ministero della Cultura negli anni 1996-1997 per l'ANCI. Ha fatto parte della Conferenza di Coordinamento Regionale del Lazio per il Diritto agli Studi Universitari. Apprezzato per la sua attività giornalistica, è autore di varie pubblicazioni: “Appunti per una storia dei movimenti sociali “(Ed. ISC 1999), “Figli della stessa storia” (Ed. Interculturali 2002), “La conservazione dei beni culturali nel Lazio” (Cassino 2007).

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  Prefazione "Excalibur - La Spada di Macsen" di Raffaella Bettiol
Il viaggio di Macsen Wledig

Con mano elegante e sicura nel suo secondo romanzo, Excalibur-La Spada di Macsen (© 2014 Alvaro Gradella), Alvaro Gradella narra le vicende finali della parabola politico-militare e umana di Magno Clemente Massimo, ultimo Governatore della Britannia.
Il racconto dell’Eroe romano, condannato alla damnatio memoriae dalla storiografia ufficiale quale usurpatore, ma entrato a far parte della mitologia gallese con il nome di Macsen Wledig, si colloca in un periodo, durato circa un decennio, che vede, dopo la disfatta di Adrianopoli del 378 d.C., l’accentuarsi della crisi dell’Impero romano, una crisi che traeva origine da molteplici motivi sia di ordine politico, sociale, economico, sia militare e non ultimo religioso. Fu, infatti, l’insieme di queste cause disgreganti a facilitare le invasioni delle popolazioni barbariche.
Leggenda e storia confliggono apertamente nei riguardi delle vicende e della personalità di questa figura di condottiero romano, ma, come già ricorda Alvaro Gradella nel sottotitolo del suo primo libro L’Aquila e la Spada: “La storia è scritta dai vincitori, la leggenda dagli sconfitti”. Per l’autore, infatti, Magno Clemente impersonifica le virtù e i valori più alti della romanità, entrati decisamente in declino nel IV Secolo dopo Cristo.
Se nel primo romanzo predomina, nonostante pagine altamente drammatiche, una costante luminosità, accesa dai bagliori del ‘magismo’ proprio della cultura dei Celti, popolata di riti magici, di druidi e di fate, e dall’amore della principessa Elain, in Excalibur-La Spada di Macsen, invece, sono il dramma e la solitudine di un uomo tradito, il quale ha perso tutto ciò che amava, a segnare il racconto.
La scrittura è tesa ed asciutta, molto spesso i luoghi descritti sono pervasi da una foschia latente. Manca in questo romanzo lo sguardo incantato innanzi alla Natura, ma c’è forse una più accentuata e minuziosa descrizione architettonica delle città e delle fortificazioni romane; sappiamo che in quel periodo gli architetti divennero i professionisti più ricercati e i personaggi più importanti. Nei consigli comunali dei vari centri urbani grandi o piccoli, quello che possiamo paragonare all’attuale Assessore all’Edilizia era la carica più importante, perché disponeva di maggiori risorse. L’autore, inoltre, si sofferma a lungo sulla descrizione dei luoghi e sulle vicende in essi accadute, aprendo, talvolta, ampie digressioni storiche, quasi dei flashback.
Il mondo magico quasi scompare in Excalibur-La Spada di Macsen, anche se è sempre vicina al nostro eroe la figura del druido Taliesin, al quale Magno Massimo affiderà la famosa Spada, chiamata Excalibur, forgiata per lui dal Dio del ferro e del fuoco, che diverrà la vera protagonista dei celebri cicli arturiani. Ciò che colpisce maggiormente il lettore in questo romanzo è l’abilità con cui Gradella sa accostare realtà a fantasia. L’ambientazione storica è infatti precisa, e testimonia, ancora una volta, la passione dell’autore per lo studio della Romanità.
Il racconto ha inizio a Milano, che, assieme ad Aquileia, alla fine del IV secolo d.C., è la città che riveste maggior importanza in Italia. Qui, infatti, Giustina e l’imperatore Graziano avevano spostato la Corte Imperiale. Lo stile chiaro e limpido della narrazione rende estremamente vividi i personaggi con cui il nostro protagonista si dovrà confrontare: sono “i grandi” della sua epoca, si pensi soltanto al Vescovo Ambrogio e al retore Agostino, futuri Santi.
Un argomento più volte ripreso da Alvaro Gradella riguarda la questione religiosa: il Cristianesimo con la sua dottrina ed anche la sua intransigenza avrebbe, secondo l’autore, minato i valori fondanti l’Impero di Roma. Al monaco Martino (anche lui, futuro Santo), il quale si vantava d’aver distrutto “ogni covo di idolatri”, così l’autore fa rispondere Magno Massimo: «Oh, certo! Roma ha ucciso, ha schiavizzato. Ha distrutto, ma dove altre armate conquistatrici erano passate come torme di cavallette, devastando e massacrando, per poi ritirarsi depredando ogni cosa e lasciando il buio della carestia e della devastazione, Roma ha portato invece un po' della sua luce e della sua civiltà... E lasciava ai popoli sottomessi la libertà di continuare i culti e le tradizioni dei loro antenati.”
Gli Imperatori Graziano e Teodosio in quel periodo si erano fatti paladini del Cristianesimo, bandendo ogni altro culto, ma questo aveva inasprito, ci ricorda Gradella, gli animi di molti legionari ancora legati al mito di Mitra. Si veniva in tal modo a negare uno dei principi fondamentali della romanità, la pax deorum. Nell’ambito del Cristianesimo, inoltre, si erano verificate infinite divisioni e dispute teologiche, tali da aggravare la già accentuata decadenza di un sistema; si ricordino le lotte tra l’Arianesimo ed il Cattolicesimo. Sant’Ambrogio si schiererà più volte contro l’Imperatrice Giustina ed il figlio Valentiniano II, i quali avevano in un primo tempo abbracciato la dottrina cristologica del monaco Ario.
Splendide scenograficamente sono le descrizioni delle battaglie e della corsa degli aurighi, con cui si apre il romanzo: l’autore si sofferma con grande precisione e capacità espressionistica su tali avvenimenti. Di sovente inoltre egli utilizza termini latini per descrivere armamenti, cariche ufficiali; Gradella sa bene che non tutti i termini troverebbero un’esatta traduzione in italiano.
Lo sguardo di Magno Clemente Massimo non è più quello che, talvolta, ci appariva sorridente ed orgoglioso ne L’Aquila e la Spada; spesso ora i suoi occhi neri appaiono annebbiati dal dolore, velati di struggente malinconia. Il nostro eroe sa che forse è quasi giunto alla fine del suo lungo viaggio.
Un’indiscutibile continuità ideologica e di ispirazione vivifica i due libri di Alvaro Gradella, narranti le vicende di questo straordinario condottiero romano condannato alla damnatio memoriae, perché entrambi non solo celebrano la grandezza di Roma e quanto di questa sia rimasto in eredità al mondo epico e fatato della Britannia, ma evidenziano, oltre alla creatività, la profonda cultura e sensibilità storica dell’autore.

Raffaella Bettiol
già Presidente Società Dante Alighieri
Comitato Provinciale di Padova


Poetessa e scrittrice, ha pubblicato: “L'anima segreta” (1997), “Ipotesi d'amore” (2006) e “Notturno” (2007, cd, a cura e voce di Valter Zanardi); ha steso la postfazione alla raccolta poetica "Camminando in versi" (1996) e ha curato l'antologia “Il mio bicchiere da viaggio - Otto poeti italiani d'oggi” (2001). Una sua lirica è inserita nella raccolta “Gelato in versi” (1997). Ha partecipato a numerosi concorsi letterari ottenendo i seguenti Primi Premi: 1995, "Calabria-Riviera dei Cedri", Taranto "Santa Croce", "Val di Vara", quest'ultimo anche nel 1996; 1998, "San Marco-Città di Venezia" Terzo Premio (per la raccolta “L'anima segreta”); "Primavera Strianese" Primo Premio (per la raccolta “L'anima segreta”); oltre a numerosi altri Premi nazionali ed internazionali. Nell'assegnarle il Premio "Calabria '79", la Giuria ha steso la seguente motivazione: «Classica nei toni armoniosi e dimessi, moderna negli accostamenti di stile e d'immediatezza espressiva, la poesia della Bettiol si distingue per il senso delicato di intuizioni felici, di genuina e spontanea freschezza d'immagini e per la sintetica definizione delle più segrete pieghe dell'animo umano. Un'esperienza poetica ravvivata da interiori consolazioni; una voce ben modulata, aperta e nuove quasi discorsive cadenze.». E' stata anche Presidente della prestigiosa associazione culturale “Società Dante Alighieri” di Padova.



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  Prefazione "Excalibur - La Spada di Macsen" di Adolfo Morganti
Alvaro Gradella prosegue con questo suo Excalibur – La Spada di Macsen il percorso mitico-narrativo iniziato con L'Aquila e la Spada nel 2012, di cui abbiamo già avuto modo di trattare.
Lo fa con una sapienza di tratto che gli apre le porte ad un possibile e già in nuce proseguo che lo condurrebbe alla stesura di una trilogia narrativa, unica in Italia, sul passaggio dalla Romanità al mondo storico e mitico di Artù, figlio di Uther Pendragon. Ma questo non è il solo suo merito.
L’Autore, cosa rara in un clima di consumismo culturale in cui chi scrive romanzi storici – un genere di sempre fecondo successo, fatto che suggerisce molte valutazioni attorno al bisogno di identità storica che contraddistingue il mondo in cui viviamo – lo fa leggendo al massimo altri romanzi storici e compulsando la più vasta miniera a cielo aperto di errori e superficialità della modernità, Wikipedia, da anni studia con attenzione quel lungo e cruciale periodo di passaggio fra Romanità e Alto Medioevo che darà poi vita ad un cuore pulsante della letteratura e dell’identità europea: la “Materia di Bretagna”, la storia di Re Artù e della Tavola Rotonda.
Da anni, si diceva: la mia conoscenza con Alvaro Gradella risale al 1997, quando con “La terza Aquila” – un racconto veramente bellissimo, dove già allora e con largo anticipo tratteggiava la genesi romana di Excalibur – vinse il 2° Premio al Concorso Internazionale promosso da Fantàsia in occasione dell’annuale Convention Nazionale di Letteratura Fantastica e dell’Immaginario (ItalCon). Il suo racconto venne quindi pubblicato in una bella antologia dal nome È sempre tempo di eroi (Il Cerchio, 1998).
Già in quell’occasione egli si misurava con una profondità di conoscenza che lasciò stupita la Giuria del Premio attorno alla dialettica storica e spirituale fra Romanità e Germanesimo; anche allora perno del racconto era una spada; anche in quel racconto la figura dell’eroe era resa asciuttamente, senza retorica né antiretorica. Una scrittura efficace e stringata, una trama avvincente: un notevole autore scoperto, che solo la devastante esterofilìa del mondo letterario italiano – esasperata nell’ambito della letteratura di fantascienza e fantasy, in cui si è dovuto spesso assistere al penoso spettacolo di autori di Bari o Rho che per pubblicare racconti e romanzi in Italia dovevano inventarsi pseudonimi anglosassoni e far finta di essere americani – ha tenuto ai margini della meritata notorietà artistica in ambito letterario, che in altri ambiti gli ha viceversa assai più abbondantemente arriso.
Ora, il lettore de Excalibur – La Spada di Macsen può quindi misurare da solo lo spessore di questo amore di Gradella per quella stagione corrusca e cruciale della nostra storia, crogiolo in cui ha preso forma l’Europa di oggi, e considerare come dietro alla bella lettura di questo romanzo riposino molte belle letture, altrettante meditazioni, uno studio assiduo del contesto storico ed antropologico di cui esso si nutre generosamente.
L’afflato… per un romanzo storico è tutto. In realtà Alvaro Gradella ci narra costantemente le metamorfosi dell’archetipo dell’Eroe, che a differenza della nota ed infelice battuta di Bertold Brecht, non ci abbandona mai; così come ci è noto quanto il drammaturgo tedesco adorasse gli Eroi del Lavoro dell’Unione Sovietica, non esiste semplicemente società umana che non distilli i propri esempi e non li additi all’onore sociale, all’imitazione dei propri membri. Se gli storici delle religioni, a partire dallo statunitense Joseph Campbell, hanno da decenni illuminato l’esemplarità, quindi la natura sociale e pedagogica della figura dell’Eroe nelle società tradizionali, chiunque analizzi la società contemporanea si trova a dover affrontare il medesimo tema, che per pudore potrà essere travestito con termini più politically correct (come moda, od icona…) ma che resta vivo della medesima funzione; di fronte alle miriadi di magliette col volto trasfigurato di Che Guevara ed alla macchina massmediale che divinizza Lady Gaga ad uso delle adolescenti in cerca di identificazioni di successo, nei due romanzi di Alvaro Gradella lo spessore del protagonista Magno Clemente Massimo appare scolpito nel marmo.
“La Storia è scritta dai Vincitori, la Leggenda… dagli Sconfitti”. Questa frase, già scolpita nella copertina della prima edizione de L’Aquila e la Spada, viene ripetuta in calce a questa sua nuova fatica letteraria. Ma così come i Vincitori non sono sempre né belli né buoni, così gli Sconfitti continuano a richiamare non solo la pietas che si deve (si dovrebbe) riconoscere al valore sconfitto sul campo, ma qualcosa di più: la bellezza dell’azione, la profondità dell’amicizia, il coraggio di fronte ad un destino che come quello di tutti noi è intessuto di speranze e timori, di amore e delusione, di vita e di morte. Le vicende lontane del tempo in cui, alla periferia del mondo conosciuto, l'eredità di Roma divenne l'utero di un cruciale ed archetipico Medioevo sacro tornano così a parlare ad ognuno di noi della battaglia quotidiana, che ogni uomo combatterà su questa terra finché non avremo nuovi cieli e nuove terre. Ed in questa narrazione la Spada rimane il simbolo assiale, nella sua continuità e nelle sue trasformazioni, di una sacralità che non si estingue. Mai.

Adolfo Morganti

Psicologo e psicoterapeuta, svolge funzioni peritali presso i Tribunali Civili e Penali di Rimini e San Marino e il Tribunale Ecclesiastico Flaminio di Bologna. Presidente dell’Associazione Culturale Internazionale Identità Europea e già dell’Unione Paneuropea della Repubblica di San Marino, promotore e coordinatore l’Università d’Estate della Repubblica di San Marino. Tra gli Istituti da lui fondati si ricordano l’Osservatorio Stabile sull’Integrazione Europea e la Sussidiarietà, il Centro Studi Nuovo Medioevo della Repubblica di San Marino, presieduto dal prof. Franco Cardini, l’Istituto di Studi Storico-Politici Sammarinese (ISSPOS). Ha diretto la Collana di Saggistica “L’uomo e il Sacro” presso le Edizioni Rusconi di Milano, il quadrimestrale di Studi di Antropologia Religiosa I Quaderni di Avalon e il mensile EuropaItalia.  Collabora a numerosi periodici italiani ed europei. Tra i suoi numerosi saggi, oltre alle traduzioni e alla curatela di opere di L. Charbonneau-Lassay, S.E. Mons. Paul Poupard, Takuan Sōhō,  si ricordano “Il Mago Merlino. Metacritica di un mito letterario” (Solfanelli editore, 1986), “Il Mistero del Mago Merlino” (Il Cerchio, 2008), “La costruzione dell’Europa unita. Storia, radici, prospettive” (Il Cerchio, 2006). Tra le mostre da lui curate: “Un tempo da riscrivere: il Risorgimento italiano” (con F.M. Agnoli), “San Colombano, Abate d’Europa” (con Paolo Gulisano e Mauro Steffenini); “Roma, Santiago, Gerusalemme. Vie e luoghi dell’incontro con Dio” (con Franco Cardini).

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